Viaggio nello spazio - prima parte
Testato al Cnao uno strumento per misurare i raggi cosmici
08 giu/20
Il professor Livio Narici dell’Università Tor Vergata di Roma, fisico, esperto di missioni spaziali, racconta un interessante progetto di collaborazione con i fisici del CNAO che ha portato alla realizzazione di test su un’apparecchiatura installata sulla Stazione Spaziale Internazionale. Di seguito riportiamo la prima parte dell’intervista.
Lei è un fisico, esperto di missioni spaziali e in particolare degli effetti che le radiazioni cosmiche hanno sugli astronauti. Cosa accade al corpo umano quando è esposto alle radiazioni nello spazio?
Sulla terra le particelle cosmiche più dannose per l’uomo vengono deviate dal campo magnetico terrestre e frammentate - rese ‘meno pericolose’ - parzialmente bloccate dall’atmosfera. A terra, quindi, stiamo tranquilli. Queste protezioni ci sono anche sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), ma in modo limitato e dipendente dalla posizione orbitale della ISS.
Nello spazio profondo, quando ci si allontana dalla terra per andare sulla Luna o su Marte, l’essere umano si trova senza protezioni ‘naturali’ e si deve affidare a quelle che porta con sé: la navicella spaziale, un eventuale base sulla Luna, o su Marte, la tuta, protezioni che hanno tuttavia una efficacia limitata. Un astronauta riceve una dose di radiazioni nella ISS maggiore di quella che riceve sulla terra, e nello spazio profondo assai maggiori di quella che trova sulla Stazione Spaziale.
Le particelle cosmiche sono ioni, nuclei di atomi, da quello dell’idrogeno (il semplice protone, che è più abbondante nel cosmo di tutti gli altri ioni, per diversi ordini di grandezza) in su, principalmente fino agli ioni ferro. Sono onnipresenti nella galassia (sono chiamati Raggi Cosmici Galattici, GCR), e provengono da tutte le direzioni.
L’esposizione dell’uomo alla radiazione cosmica durante un viaggio nello spazio profondo, comunque, non è completamente fuori scala rispetto a esposizioni che conosciamo bene a terra. Ad esempio, la dose durante una TAC può corrispondere a circa quattro giorni di viaggio verso Marte, oppure una dozzina di giorni su Marte (in entrambi i casi senza protezioni). In questo ultimo caso, infatti, l’astronauta è parzialmente protetto dal pianeta stesso, e, anche se minimamente, dalla rarefatta atmosfera marziana.
Ciononostante, e anche considerando le più efficaci protezioni con schermature, protezioni farmacologiche che possano mitigare gli effetti della radiazione, il rischio da radiazione durante le lunghe permanenze nello spazio è uno dei rischi maggiori per gli equipaggi spaziali, che deve essere affrontato e adeguatamente mitigato prima di intraprendere viaggi del genere.
Queste particelle attraversando il corpo umano, vi rilasciano energia e possono causare seri danni. D'altronde è proprio su questo principio che funziona la terapia a ioni pesanti che si esegue, ad esempio, al CNAO: flussi di ioni (nuclei di atomi), nel caso del CNAO di atomi di carbonio, vanno a ‘bruciare’ tumori altrimenti difficilmente raggiungibili. Nello spazio, ovviamente, la quantità di particelle che passa nel corpo di un astronauta è enormemente minore, ma i principi di interazione con la materia sono gli stessi. La radiazione cosmica può avere molti effetti a tempi lunghi. Danneggiando il DNA può aumentare la probabilità di avere un tumore, può intervenire sul sistema cardiovascolare e produrre malfunzionamenti. Recentemente c’è un fortissimo interesse nella possibile interazione con il cervello, con le funzioni cognitive. Data la bassa intensità della radiazione cosmica questi sono tutti effetti a lungo termine, anche se, ad esempio, uno dei primi effetti scoperti sono i fosfeni (lampi di luce) che sono percepiti in assenza di luce dagli astronauti nello spazio (primo report di Aldrin nel 1969) e che sono dovuti ad una singola particella che transita nel sistema visivo. Ad oggi queste percezioni anomale non sembra comportino rischi, ma sottolineano la possibilità di interazione dei raggi cosmici col sistema sensoriale, e quindi più in generale con il cervello (recentemente si è dimostrato che altri sensi, l’udito, l’olfatto, il gusto ‘sentono’ anche le particelle).
Quanto detto sopra considera solo i raggi cosmici galattici. C’è un’altra sorgente importante di radiazione nello spazio profondo: le particelle che vengono emesse durante eventi solari (ad esempio i brillamenti solari). Queste sono principalmente protoni con una alta intensità che possono colpire la terra e il sistema solare per alcune ore ma anche per alcuni giorni.
Questa radiazione può provocare rischi ‘acuti’ a breve termine sull’essere umano, in quanto la quantità di radiazione nell’unità di tempo è significativamente più elevata di quella dovuta ai raggi cosmici galattici. Sono più facili da schermare (ciò è dovuto alla loro energia mediamente più bassa di quelli galattici, e al fatto che sono principalmente protoni) ma potrebbero essere letali se un evento particolarmente intenso colpisse un astronauta in EVA (Extra Vehicular Activity). Storicamente si ricorda l’evento solare che capitò ad Agosto 1972, fra le missioni Apollo 16 (Aprile 1972) e Apollo 17 (Dicembre 1972). Fu così intenso che se fosse capitato durante una delle due missioni i danni agli astronauti sarebbero stati molto seri.
Oggi la strategia per mitigare questi effetti è quella di sviluppare un solido algoritmo di predizione anche a brevissimo termine, per avere il tempo di mandare l’equipaggio dentro un rifugio (parte della navicella più schermata). L’idea di schermare l’intera navicella a questi eventi non è praticabile per via della massa eccessiva necessaria.
Ha collaborato con i fisici del CNAO alla realizzazione di test su un’apparecchiatura installata sulla Stazione Spaziale Internazionale. Di cosa si tratta?
Del rivelatore di particelle LIDAL (Light Ion Detector for ALTEA).
Per mitigare il rischio dovuto alle radiazioni nell’esplorazione umana dello spazio è necessario conoscere nel dettaglio la radiazione all’interno di un ambiente abitato nello spazio stesso. È stato dimostrato che la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) è il luogo più simile ad una navicella in viaggio interplanetario che abbiamo, persino se si considera il fatto che è parzialmente schermata dal campo magnetico terrestre. Quindi è necessario uno studio approfondito della radiazione nella ISS per studiare a fondo il tipo di radiazione cui saranno sottoposti gli astronauti. A ciò si aggiunge il fatto che uno studio del genere è importante anche ‘operativamente’ per sapere la radiazione a cui sono sottoposti gli astronauti nella ISS. Infine, ma più importante, queste misure della radiazione in un’ambiente abitato spaziale, assieme alla conoscenza della radiazione al di fuori ISS, permettono di validare quei modelli che ci descrivono tutte le interazioni tra la radiazione esterna e quella interna, aventi luogo nella schermatura della navicella stessa, e quindi di sviluppare modelli precisi della radiazione in un habitat spaziale.
LIDAL è un nuovo rivelatore progettato per aggiornare il rivelatore ALTEA che ha operato nella ISS dal 2006 al 2012. Entrambi i rivelatori sono interamente italiani (con coordinamento del Dipartimento di Fisica dell’Università di Roma Tor Vergata) e frutto di finanziamenti dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). ALTEA fu costruito con l’obiettivo di misurare con accuratezza la radiazione con carica elevata, e conseguentemente non permetteva una misura completa di protoni e nuclei di Elio, LIDAL estende questa capacità alle cariche più basse, come, appunto, protoni ed Elio. LIDAL utilizza dei sensori a scintillazione con elettronica molto veloce e permetterà, per la prima volta in un ambiente abitato spaziale, la misura del tempo di transito delle particelle (di fatto della loro velocità).
LIDAL è stato lanciato sulla ISS il 2 Novembre 2019 e dal 19 gennaio 2020, misura l'ambiente di radiazione nel modulo Columbus dell'ISS.
Come tutti i rivelatori, la funzionalità di LIDAL è stata provata prima del lancio. Questo è appunto avvenuto durante una serie di misure prima al CNAO e poi al TIFPA (proton-terapia di Trento). Al CNAO un flusso dalle caratteristiche note (tipo di particella – in questo caso ioni di carbonio – energia, numero di particelle al secondo) è stato mandato sul rivelatore, e in questo modo, cambiando anche energia e numero di particelle, si è potuto calibrare l’elettronica. Il CNAO è l’unico centro in Italia dove sia possibile questo tipo di test con nuclei pesanti, come il carbonio.